4 Maggio 2025
Come e perché i commercianti americani sbuffano contro i dazi Usa


Che cosa dice, e perché lo dice, la US Chamber of Commerce. L’approfondimento di Mario Seminerio, curatore del blog Phastidio.net

La US Chamber of Commerce, lobby che rappresenta oltre tre milioni di imprese statunitensi e che è nota per spendere più delle altre associazioni di categoria in azioni di pressione sulla politica, ha inviato una supplica alle tre figure che nell’Amministrazione Trump seguono il commercio estero: segnatamente Scott Bessent, Segretario al Tesoro; Howard Lutnick, al Commercio; e Jamieson Greer, US Trade Representative.

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ESENTATECI O MORIREMO

In tale supplica si chiede al governo federale di rimuovere i dazi su tutte le piccole imprese importatrici di beni “che non possono essere prodotti negli Stati Uniti” o che non sono reperibili nel paese. Altrimenti si rischia una vera e propria ecatombe di Pmi a stelle e strisce. Questa vicenda è interessante perché ci dice molto sulla struttura “produttiva” dell’ecosistema delle piccole e medie imprese statunitensi.

Prima di tutto, è interessante osservare che la richiesta segue un approccio di deferenza che la stessa AmCham (come è familiarmente nota) non ha utilizzato con l’Amministrazione Biden, citata in giudizio una ventina di volte. Oggi niente tribunali ma solo suppliche, vista la verosimile vicinanza ideologica alla Casa Bianca che caratterizza molte delle vittime della guerra dei dazi. “Funzionerà nel lungo periodo, sono d’accordo col presidente ma nel breve dovete esentarci” è diventata la canzoncina dei trumpiani sedotti e seviziati dalla politica commerciale del loro nume.

Ma la vicenda ci dice anche altro, qualcosa di più rilevante: esiste un elevato numero di piccole e medie imprese statunitensi che non fanno altro che importare merci dalla Cina e rivenderle, spesso in contesti rurali, con margine di ricarico, contando sul fatto che i produttori cinesi lavorano con ordini di dimensioni anche molto contenute.

Si tratta di commercio, quindi, non di produzione. Fatale che questo ambito divenga la vittima predestinata della guerra dei dazi. Semplicemente perché esiste una vastissima gamma di merci che per motivi di costo non possono essere prodotte negli USA. E, se anche fosse possibile produrle, i tempi di creazione della filiera sarebbero incompatibili con la sopravvivenza della sovrastruttura di commercianti che vivono di questo import.

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In pratica, costoro fanno quello che Shein e Temu realizzano per il retail, ma su volumi superiori a quelli del retail. Sono le miriadi di empori di provincia, per fare un esempio. Ma non solo loro: si pensi ai piccoli e-commerce indipendenti. Pura intermediazione commerciale che proprio oggi, 2 maggio, vede terminare le esenzioni doganali sui pacchi di controvalore inferiore a 800 dollari, nota come regime de minimis. Ma ovviamente parliamo anche di commercianti che importano per controvalori superiori: loro sono già stati colpiti e stanno pregando di risvegliarsi dall’incubo un minuto prima di aver terminato le scorte di magazzino.

Al momento la Casa Bianca, per bocca del protervo vice capo dello staff, Stephen Miller, ha risposto niet ai commercianti e li ha invitati a mettersi gli occhiali da sole per proteggersi dall’accecante futuro che li attende, col “taglio di tasse più grande della storia”. Chi investe negli Stati Uniti non paga dazi, è il ritornello. Ma pensare di “investire” per sostituire le filiere cinesi è vagamente lisergico.

SOLDI PER LO SDOGANAMENTO

E poi ci sono altri problemi potenzialmente esiziali per le Pmi e le loro finanze, legati ai dazi. Ne dà conto Gillian Tett sul Financial Times, citando il caso di un imprenditore della West Coast che otto anni addietro si fece prestare da parenti e amici 50 mila dollari e mise in piedi un e-commerce di abbigliamento che importa da Cina e Vietnam. Cioè dai due paesi maggiormente colpiti dai dazi trumpiani.

Oggi questo imprenditore affronta i dazi e la fine del regime de minimis. Dovrà cercare di capire quanto potrà chiedere di sconto ai fornitori e quanto ricarico di prezzi i suoi clienti potranno tollerare ma soprattutto dovrà fare una cosa: trovare i mezzi finanziari per pagare i dazi al momento dello sdoganamento della merce. Perché questo è un punto spesso sottovalutato, nell’analisi del fenomeno. L’importatore paga i dazi, quindi ha bisogno di liquidità aggiuntiva a quella con cui paga le forniture. Tale liquidità potrebbe ovviamente essere generata con un calo degli ordini, conseguenza dell’aumento di prezzo per i consumatori finali. Ma il rischio qui sarebbe quello di azzerare la redditività d’impresa.

Il tema delle minori quantità è stato trattato dallo stesso Trump, dicendo che questo Natale le bimbe americane “avranno due bambole anziché 30, e quelle due bambole costeranno un paio di dollari in più”. Che è un modo come un altro per dire chi pagherà realmente dazi, dopo tutto. Un approccio sobrio e austero, mentre si tenta di trasformare gli americani da consumatori a produttori.

Il credito, si diceva: serve per finanziare le scorte. Ma in un contesto di margini che certamente soffriranno, perché la parte di maggiori costi girata sui consumatori determinerà minori quantità richieste. La Casa Bianca potrebbe intervenire con prestiti agevolati e sovvenzioni, mettendo in piedi un mostro burocratico dai costi molto elevati per i contribuenti. Le banche potrebbero poi scontare nel costo del credito le peggiorate prospettive per il business, con i crescenti rischi di fallimento di clienti e fornitori lungo la filiera, e stringere il cappio.

Oppure Trump potrebbe proseguire nell’allentamento dei dazi, avviando quelle esenzioni che li renderebbero solo uno spaventapasseri. È tutta una questione di tempi e capacità di resistere da parte delle imprese. Ora la Cina si dice pronta ad avviare un dialogo e la borsa trova nuovi motivi per tornare a salire, dopo la voragine del 2 aprile, Liberation Day. Ma tempi e modi restano largamente indeterminati. Ricordiamo anche che nella precedente vita alla Casa Bianca, Trump negoziò coi cinesi maggiori acquisti di prodotti americani, soprattutto agricoli, e la cosa finì in nulla. Gli sbilanci bilaterali, se restano in essere, semplicemente si spostano da un paese all’altro, con triangolazioni. Se cercate di chiudere questi loopholes utilizzando ad esempio le regole di origine, qualcuno a casa vostra muore. Saranno i commercianti i protagonisti della prossima elegia americana?

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