15 Maggio 2025
Medie, ma grandi. Quali sono (e come si riconoscono) le migliori pmi




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Nel censimento delle imprese Istat le realtà di medie dimensioni (50-249 addetti) rappresentano il 2,2% del totale delle aziende italiane; tradotto in termini assoluti, 22.861 unità. Poche per attribuire loro un valore statistico, ma abbastanza per farne un ambito di indagine simbolico dello stato di salute dell’imprenditoria italiana legata all’iniziativa individuale e alla dimensione familiare. A maggior ragione se la stessa ricerca conferma alcuni valori positivi legati proprio a questa classe di imprese, come la loro crescita dimensionale negli anni, con molte società che da piccole sono entrate nel conto delle medie, ma anche del loro fatturato e della relativa occupazione. Da qui la scelta di dedicare un’indagine delle eccellenze tra le medie industrie e le società di commercio e servizi, unendo alla lente dimensionale (50-250 addetti) quella dei fatturati (tra 10 e 100 milioni di euro nell’anno 2023) e operando, grazie alla collaborazione con la piattaforma di analisi delle imprese Leanus (www.leanus.it), una selezione secondo i seguenti criteri: imprese private, con una chiara identità italiana, non in procedura, con Patrimonio Netto Positivo, rapporto tra Posizione Finanziaria Netta/Ricavi inferiore all’80%, bilanci in ordine, disponibili nei 5 anni, con una crescita ricavi maggiore del 10%, e un Leanus Score (indicatore che sintetizza con un punteggio numerico la solidità economico-finanziaria di un’impresa analizzando parametri contabili come redditività, solvibilità, liquidità e struttura patrimoniale) superiore a 10.

Quelle che seguono sono le prime classifiche emerse da questa ricerca, pubblicata più ampiamente sul numero di Capital in edicola, e in particolare quelle relative alle industrie.

Eppure non tutto è scritto nei numeri, dirà qualcuno. Molto di più del futuro delle aziende si cela nelle loro storie e nei cosiddetti «valori intangibili». Come si giudica dunque un’impresa? «Un’azienda si giudica dalla sua capacità di generare valore in modo sostenibile nel futuro», risponde Vincenzo Perrone, professore di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi di Milano e tra i fondatori della piattaforma Leanus. «Quindi non contano solo gli asset o la liquidità o lo storico dei risultati positivi, ma anche quanto l’impresa è attrezzata per competere nei prossimi anni. Anche la quotazione di borsa di una società, se vogliamo considerarla un indicatore del suo valore, riassume la solidità economico finanziaria raggiunta e insieme la capacità attesa di generare valore in prospettiva».

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Vincenzo Perrone, professore di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi di Milano

Se il valore dipende dal passato e dal futuro, come si può fotografare in una classifica il presente?

«Come faccio a dire che una persona è più in salute di un’altra? Posso individuare dei parametri specifici e valutare ciascun individuo. E allora uno potrebbe essere messo meglio di un altro, per esempio, per la pressione sanguigna ma peggio per livelli di colesterolo. Per questo motivo occorre mostrare più graduatorie sulla base dei singoli parametri: il fatturato, l’utile… e il punteggio Leanus, che è un indice sintetico e trasversale che combina in modo ponderato diversi dati (di crescita, di redditività e di efficienza)».

Applicando i parametri citati all’inizio alla platea delle medie imprese, l’elenco delle virtuose si riduce a circa 13mila nomi, alcuni dei quali, quelli ai vertici, sono elencati nelle classifiche. Ma in generale sembra un numero esiguo, è così?

«L’anagrafe aziendale italiana è fatta di molte migliaia di micro-imprese. Quando si comincia a parlare di milioni di euro di fatturato i numeri si riducono molto velocemente. L’insieme delle imprese prese in esame è un campione significativo del nostro tessuto economico non inquinato da altre considerazioni che non siano appunto di tipo strutturale. E il dato strutturale preoccupante è che in molti casi gli individui si «travestono» da impresa, e raggiungono fatturati che equivalgono allo stipendio che avrebbero se lavorassero con un ruolo importante in una azienda medio-grande. Se si va a fondo nell’esaminare la struttura dell’economia reale italiana si è costretti ad abbandonare le analisi semplici che contrappongono le virtù delle piccole imprese a quelle delle grandi, osservando invece un sistema dove contano le relazioni di interdipendenza. Senza gli acquisti delle grandi, molte piccole fanno fatica a sopravvivere. Senza spesa e investimenti pubblici si ridurrebbero fatturati e margini di una fetta importante dell’economia privata. Senza banche capaci di comprendere le esigenze delle imprese e di finanziarle in modo corretto, non ci sarebbero opportunità di crescita per molte realtà aziendali. Se non si connette quello che apparentemente sembra diverso e diviso non si capisce il nostro Paese e si fa ancora più fatica a governarlo in maniera efficace».

Il calo progressivo della produzione industriale come è destinato a cambiare i perimetri del made in Italy, tradizionalmente legato alla manifattura?

«Non credo nel passaggio al terziario più o meno avanzato come specializzazione economica dominante del nostro Paese. Quasi come se l’industria e la manifattura fossero destinati ad avere il peso che ha oggi l’agricoltura in un’economia sviluppata. I servizi servono qualcuno che produce e lo stesso fa il commercio. Dal momento poi che non vantiamo campioni internazionali né nell’uno né nell’altro campo, dobbiamo dedurne ancora che la vita e la prosperità dei diversi settori della nostra economia sono connessi tra loro. Non ci si può rassegnare al declino dell’industria, anche se il fatturato dei servizi, e l’occupazione che assorbono, salgono. Si può e si deve fare buona industria in un paese moderno ed avanzato. Con produzioni sostenibili, ad alta tecnologia di processo e di prodotto, con lavoratori e quadri qualificati, innovando grazie a un attento ascolto dei clienti in tutto il mondo e al collegamento con i risultati della ricerca scientifica. A volte, in passato, «made in Italy» ha più voluto dire competere con prezzi bassi ottenuti grazie a salari bassissimi e un po’ di svalutazione quando non eravamo ancora nell’euro, piuttosto che il marchio simbolico del nostro genio, della nostra capacità di fare impresa e di inventare nuovi prodotti».

Inventare è ancora il mestiere dell’imprenditore?

«Nelle pmi si tende a fare molto sviluppo, cioè a prendere qualcosa che c’è già e a migliorarla. È un processo utile a guadagnare efficacia ed efficienza, ma così si rinuncia a creare valore per la propria impresa. Il problema è che, siccome viviamo tutti in ambienti competitivi, e le aziende sono come le bici, occorre pedalare per restare in equilibrio. Chi non si muove, chi non innova, non sopravvive. Abbiamo ancora bisogno di imprenditori, ovvero di coloro che si buttano in qualcosa rischiando. Scommettere sul fatto di poter avere un prodotto, vincere la concorrenza, andare sul mercato, creare posti di lavoro, restano dei valori. Quello che sta cambiando rispetto all’epopea dell’imprenditoria del Novecento è che oggi, fin da subito, un founder deve allestire un team. L’imprenditore è ancora un eroe, insomma, ma non più solitario. Il fascino dell’impresa, però, non conosce crisi e, anzi, l’idea di creare una propria realtà è all’origine delle startup che attirano i nostri ragazzi più in gamba e che sognano di dare corpo a qualcosa di unico e innovativo, incontrare un venture capital, crescere e poi magari vendere».

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Molte eccellenze del made in Italy in questi anni sono passate in mano straniera pur restando in Italia. Sono ancora esempi virtuosi?

Sì, altrimenti non avrebbe senso battersi per attirare investimenti. Quando i grandi gruppi comprano qualcosa che ha dimensioni locali non è per rilevare quote di mercato, ma perché riconoscono il know how di prodotto, la capacità artigianale e spesso anche quella manageriale che c’è in un’eccellenza territoriale e ne immaginano lo sviluppo integrandola con il resto del gruppo. Non c’è nulla di male in questo, soprattutto nel momento in cui noi facciamo fatica a compiere operazioni analoghe.

La descrizione dei vizi e delle virtù delle pmi italiane è da anni sempre la stessa; davvero non ci sono cambiamenti in atto?

«Sui giornali e nei convegni si fa spesso «economia ottativa»: si esprimono desideri, se non proprio sogni. E si predica il cambiamento. Degli altri. L’esortazione moralistica che le pmi si sentono rivolgere costantemente è l’invito a crescere. Ci sono certamente imprenditori che rifuggono le difficoltà che derivano dall’avere più di quindici dipendenti, che non amano la complessità o la fatica di esportare e di innovare. Ma io ne conosco molti di più che si spendono con i propri collaboratori per cogliere ogni opportunità di business, che, se possono crescere, non vedono l’ora di assumere persone valide e qualificate, e che saltano da un aereo all’altro inseguendo clienti e fornitori in ogni angolo del mondo. Mettendo insieme tutto questo, arrivano a fatturare 10, 50 o 100 milioni di euro. Solo chi non ha mai provato a fare la stessa cosa può considerare con aria di sufficienza risultati simili. A maggior ragione quando sono accompagnati da ottimi margini, da clienti soddisfatti e da fornitori pagati nei giusti tempi. Questo forse è il valore più importante e il messaggio più forte nella pubblicazione di queste graduatorie: riconoscere per nome e celebrare l’identità distintiva delle medie imprese italiane economicamente sane. Non vederle come grandi incompiute, ma come realtà virtuose e utili al nostro Paese e a tutti noi».



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